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È ammissibile il referendum sull’articolo 18



La Corte Costituzionale, con decisione n. 41 del 6 febbraio 2003, ha dichiarato l’ammissibilità del referendum sull’art. 18 in relazione all’applicabilità dello stesso alle imprese con meno di 15 dipendenti. Le norme specifiche, delle quali il referendum (che verrà titolato “Reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”) richiede l’abrogazione, sono riportate alla fine di questo articolo. Nell’esaminare la questione, la Corte ha operato una preliminare ricognizione dell’attuale ordinamento. A differenza di quanto stabilito dall’art. 2118 del codice civile, che prevedeva il cosiddetto recesso ad nutum dal rapporto di lavoro, la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso e del potere di adire il giudice, riconosciuto al lavoratore, in caso di licenziamento arbitrario. Tale principio, affermato con la legge n. 604 del 1966 e confermato con la legge n. 300 del 1970 (nonché con la legge n. 108 del 1990, modificativa delle due precedenti), è stato peraltro svolto per mezzo di due forme di garanzia:

a) la cosiddetta garanzia obbligatoria, prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, che comporta l’obbligo per il datore di lavoro di riassumere il lavoratore o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità quando il licenziamento risulti privo di una giusta causa (art. 2119 del codice civile) o di un giustificato motivo (art. 3 della medesima legge del 1966);

b) la cosiddetta garanzia reale, prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, che - per il caso di licenziamento ingiustificato, inefficace e nullo - stabilisce, per il datore di lavoro, l’obbligo di “reintegrare” nel posto di lavoro il lavoratore e di corrispondergli un’indennità a titolo di risarcimento del danno subìto e, per il lavoratore, la possibilità di rinunciare al “reintegro” e di ottenere, in alternativa a esso, un’ulteriore indennità.

Tutela obbligatoria e tutela reale differiscono dunque profondamente circa le conseguenze del licenziamento arbitrario: l’una è incentrata sulla garanzia patrimoniale, sul presupposto dell’inidoneità del recesso illegittimo a risolvere il rapporto di lavoro; l’altra, sulla continuità del rapporto di lavoro, garantita dal diritto al reintegro, sul presupposto dell’inidoneità del recesso illegittimo a risolverlo.
Relativamente alle due forme di garanzia, il legislatore ha altresì definito gli ambiti di applicazione. Dopo l’intervento della legge n. 108 del 1990, essi risultano configurati come segue. La tutela reale trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti in ciascuna unità produttiva, come individuata dalla legge, e, in ogni caso, quando occupino più di sessanta dipendenti; per i datori di lavoro imprenditori agricoli il limite numerico è stabilito in più di cinque dipendenti (art. 18, comma 1, della legge n. 300 del 1970). La tutela obbligatoria opera, invece, in tutti i casi in cui non vale la tutela reale, cioè (art. 2 della legge n. 108 del 1990) nei confronti dei datori di lavoro che occupino fino a quindici lavoratori (computati secondo i medesimi criteri previsti ai fini della tutela reale) ovvero fino a cinque dipendenti, se imprenditori agricoli, nonché nei confronti dei datori di lavoro che comunque occupino fino a sessanta dipendenti, sempre che non sia applicabile la garanzia reale. La tutela reale, inoltre, è prevista in tutti i casi di licenziamento dettato da ragioni discriminatorie (art. 3 della legge n. 108 del 1990). Accanto a questa disciplina generale, basata (a parte l’ultima ipotesi menzionata) sul criterio del numero di occupati, esistono norme che:

a) escludono dall’ambito di applicazione della garanzia reale i lavoratori che prestano la loro opera alle dipendenze di datori non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività cosiddette di tendenza, cioè “di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto” (art. 4, comma 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990);

b) escludono altresì dall’ambito di applicazione tanto della garanzia reale quanto di quella obbligatoria - valendo per esse la regola residuale del recesso ad nutum - alcune categorie di lavoratori come: i lavoratori domestici (art. 4, comma 1, primo periodo, della legge n. 108 del 1990), i lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici e che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto, i dirigenti, i lavoratori in prova, fino all’assunzione definitiva e comunque per non oltre sei mesi dall’inizio del rapporto.

Tramite la soppressione di alcune disposizioni, il referendum abrogativo in argomento è rivolto in primo luogo all’estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici sopra ricordati, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria. Questo obiettivo è perseguito, da un lato, attraverso l’eliminazione dei limiti numerici che impediscono attualmente alla garanzia reale di operare in favore dei lavoratori impiegati nelle piccole strutture produttive; dall’altro, parallelamente a questa estensione, attraverso l’abrogazione della norma che attualmente assicura a questi lavoratori soltanto la garanzia obbligatoria.
Restano invece fuori della portata del referendum altre categorie di lavoratori del settore privato per le quali valgono discipline particolari (come i lavoratori domestici, i lavoratori ultrasessantenni, i dirigenti, i lavoratori in prova).

Le norme oggetto del quesito referendario sono state inoltre ritenute estranee alle materie in relazione alle quali l’art. 75, secondo comma, della Costituzione preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo. La domanda posta agli elettori con il quesito referendario è altresì ritenuta omogenea. La domanda referendaria coinvolge inoltre disposizioni strettamente conseguenziali, dettate ai fini del computo dei dipendenti e per l’applicazione di agevolazioni finanziarie e creditizie indipendentemente dal limite numerico (commi secondo e terzo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970), le quali perderebbero ogni ragion d’essere una volta espunto dal sistema il criterio dimensionale al quale esse fanno riferimento. Complessivamente, quindi, la domanda referendaria ritenuta ammissibile si presenta, per quanto detto, chiara e univoca nella sua struttura e nei suoi effetti: essa infatti propone al corpo elettorale un’alternativa netta tra il mantenimento dell’attuale disciplina caratterizzata dalla coesistenza di due parallele forme di tutela, quella obbligatoria e quella reale, e l’estensione della seconda.

LE NORME OGGETTO DEL REFERENDUM ABROGATIVO


Art. 18, comma 1, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle sole parole “che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo” e all’intero periodo successivo che recita: “Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”;

- art. 18, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale”;

- art. 18, comma 3, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie”.


Art. 2, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina dei licenziamenti individuali”, che recita: “I datori di lavoro privati, imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici di cui all’articolo 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati con il criterio di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge, sono soggetti all’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, così come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti all’applicazione di dette disposizioni i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti, qualora non sia applicabile il disposto dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge”.


Art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, titolata “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”.


Art. 4, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina dei licenziamenti individuali”, limitatamente al periodo che così recita: “La disciplina di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, ovvero di religione o di culto”.


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