Jesolo,  lì 19/05/2024   01:25:45

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Il datore non può costringere il dipendente ad atti immorali



Non può escludersi che sia configurabile, alla stregua di illecito risarcibile, il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche - come tali dotate di indubbia forza vincolante - rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, ovvero incompatibili con il senso etico comune. In questi termini, del tutto generali, può convenirsi che un comportamento del genere potrebbe integrare una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c.

Questo ed altri interessanti princìpi sono contenuti nella sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 5749/2002, in materia di licenziamento individuale di un dirigente aziendale. In sintesi, non è da considerarsi giustificato il licenziamento della dirigente la cui mancata collaborazione, oggetto della contestazione disciplinare precedente l’adozione della massima sanzione disciplinare adottata dalla società datrice, è stata diretta ad evitare irregolarità nella predisposizione del bilancio, nonché ad evitare a se stessa l’esposizione a qualche forma di corresponsabilità.

Il lavoratore aveva convenuto in giudizio la società alle dipendenze della quale aveva prestato servizio in qualità di dirigente amministrativa, chiedendo l’accertamento della illegittimità del licenziamento irrogatole e la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento dei danni.

Il giudice di primo grado osservava che il comportamento tenuto dalla dirigente (consistito nel non voler effettuare o consentire di effettuare rettifiche ai dati contabili imposte dalla società tramite il suo consulente e l’amministratore destinata ad essere inseriti nel bilancio) non era risultato improntato a mancata collaborazione, ma era stato diretto ad evitare irregolarità nella predisposizione del bilancio della società (irregolarità confermate dalla consulenza d’ufficio): non era, dunque, ravvisabile un comportamento tale da giustificare il venir meno il vincolo fiduciario che connota il rapporto di lavoro del dirigente, vincolo in virtù del quale - a giudizio del tribunale - il datore di lavoro non può pretendere che il secondo sia disposto ad assumere qualsiasi iniziativa nell’interesse della società, anche quando il comportamento preteso sia ritenuto, fondatamente, tale da agevolare il compimento di atti illeciti o di irregolarità sotto il profilo fiscale. Esclusa la sussistenza di una giusta causa, il Tribunale riteneva ingiustificato il licenziamento impugnato: le fondate perplessità manifestate dal dirigente in ordine alle variazioni contabili concernenti la predisposizione del bilancio erano ben conosciute dalla società datrice di lavoro nel momento in cui fu irrogato il licenziamento, sicché - a giudizio del Tribunale - l’iniziativa assunta dalla società convenuta si poneva in contrasto con il principio di buona fede, essendo basata su comportamenti certamente ammessi dalla dirigente, ma motivati da specifiche ragioni, risultate non pretestuose.

Non veniva però accolta in tale sede la richiesta di risarcimento del danno morale, non essendo emersi concreti elementi di prova per ritenere che le richieste di chiarimenti e dati contabili fossero state poste in essere mediante condotte tali da integrare reati di violenza privata o minaccia.
Nel ricorso prodotto alla Corte anche per altre motivazioni di carattere economico, il ricorrente ha lamentato che costituisce illecito risarcibile la disposizione gerarchica data al lavoratore di commettere atti contrari alla legge, poiché ciò costituisce oggettiva ingiustizia e pone il lavoratore nell’alternativa tra violare la legge o esporsi alle conseguenze. Un tale comportamento del datore può compromettere la integrità morale del lavoratore, non meno della sua integrità fisica o del suo profilo professionale.

Su tale aspetto la Corte ha sostenuto che, non può certo escludersi che sia configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche - come tali dotate di indubbia forza vincolante - rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge, ovvero incompatibili con il senso etico comune. In questi termini, del tutto generali, può convenirsi che un comportamento del genere potrebbe integrare una violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., sempreché sia provata la situazione di effettiva sudditanza psicologica in cui il dipendente si sia trovato, anche in relazione alla sua posizione di lavoro e alle sue capacità di resistenza. Si tratta quindi di un profilo - per molti versi riconducibile al tema di viva attualità, come il "mobbing" - che non può essere confuso con il diverso profilo della risarcibilità del danno morale ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., essendo assolutamente distinti i rispettivi presupposti e la natura dei rispettivi titoli di responsabilità: contrattuale, quella derivante dalla violazione dell’art. 2087 c.c., extracontrattuale, invece, quella nascente dall’art. 2059 c.c., il quale a sua volta presuppone, in particolare, l’esistenza di un fatto reato. Precisava già la prima sentenza, infatti, che, in ordine alle ipotesi di violenza o minacce dedotte dalla lavoratrice, non erano emersi concreti elementi di prova per potere ritenere che le richieste di chiarimenti e dati contabili ad essa dirette siano state poste in essere mediante condotte tali da integrare quelle fattispecie di reato: "non risulta, infatti, tra l’altro, che sia stata prospettata l’eventualità di perdere il posto in caso di mancato accoglimento delle richieste suddette, laddove l’illegittimo licenziamento, poi intimato per i motivi sopra esaminati, se da un lato giustifica le richieste economiche del prestatore di lavoro … dall’altro non rappresenta un reato e, quindi, non è idoneo in sé a costituire fonte di risarcimento del danno morale".
Ha altresì osservato la Corte che i precedenti gradi di giudizio hanno accuratamente ripercorso tutte le vicende che hanno condotto al licenziamento della dirigente, pervenendo alla conclusione che il comportamento di quest’ultima, lungi dall’essere improntato alla mancata collaborazione, oggetto della contestazione disciplinare precedente l’adozione della massima sanzione disciplinare adottata dalla società resistente, è stato piuttosto diretto ad evitare irregolarità nella predisposizione del bilancio, nonché ad evitare a se stessa l’esposizione a qualche forma di corresponsabilità. In particolare, è stato che proprio le modifiche apportate nel bilancio, e non condivise dal lavoratore, presentavano una serie di irregolarità dal punto di vista contabile e fiscale: tali irregolarità - emerse dall’esame del bilancio, poi approvato dalla società con l’inserimento, effettuato tramite altro dipendente, di quelle voci contabili espressamente contestate per iscritto dal lavoratore - evidenziavano la fondatezza del timore di quest’ultimo, in relazione alle sue specifiche responsabilità all’interno dell’impresa, di rendersi complice di una attività illecita e di incorrere in eventuali responsabilità anche a titolo di concorso o quanto meno di agevolazione colposa.
Sulla base di queste circostanze già il tribunale aveva escluso la configurabilità di una giusta causa del licenziamento, non potendosi ravvisare nella fattispecie il venir meno del vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro.
 Va richiamata peraltro la consolidata giurisprudenza della stessa Corte, secondo cui, dato il particolare modo di atteggiarsi del rapporto di lavoro del dirigente, la nozione di giustificatezza - nettamente distinta da quella di giustificato motivo - si traduce essenzialmente in quella di assenza di arbitrarietà, o, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale, il quale, pur restando nell’ambito generale di una recedibilità ad nutum, viene tuttavia, per espressa previsione della disciplina collettiva, assoggettato ai limiti generali che presiedono alla esecuzione dei contratti, in termini di buona fede e correttezza (art. 1375 c.c.), nonché ai generali divieti di discriminazione e dell’abuso del diritto. Nell’ipotesi in esame, correttamente il tribunale aveva ritenuto che i motivi addotti dal datore di lavoro non erano idonei a giustificare il recesso adottato come provvedimento disciplinare: la condotta del lavoratore, lungi dal qualificarsi come inadempimento dei propri obblighi lavorativi nei confronti della società, appariva del tutto giustificata dai dubbi relativi alle variazioni contabili concernenti la predisposizione del bilancio, manifestati esplicitamente dalla medesima dipendente all’amministratrice della società con un’apposita lettera inviata circa un mese prima del licenziamento. Di qui la coerente conclusione dei giudici di merito che il provvedimento adottato dalla società si pone in contrasto con il principio di buona fede, essendo basato su comportamenti ammessi dal dirigente ma motivati da specifiche ragioni risultate non pretestuose.

Sulla base di quanto precede, il ricorso proposto dalla società datrice è stato respinto.


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