Il
datore non può costringere il dipendente ad atti immorali
Non può escludersi che sia configurabile, alla stregua di illecito
risarcibile, il comportamento del datore di lavoro che si traduca in
disposizioni gerarchiche - come tali dotate di indubbia forza vincolante
- rivolte al dipendente al fine di indurlo ad atti contrari alla legge,
ovvero incompatibili con il senso etico comune. In questi termini, del
tutto generali, può convenirsi che un comportamento del genere potrebbe
integrare una violazione del dovere di tutelare la personalità morale
del prestatore di lavoro, imposto al datore di lavoro dall’art. 2087
c.c.
Questo ed altri interessanti princìpi sono contenuti nella sentenza
della Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 5749/2002, in materia di
licenziamento individuale di un dirigente aziendale. In sintesi, non è
da considerarsi giustificato il licenziamento della dirigente la cui
mancata collaborazione, oggetto della contestazione disciplinare
precedente l’adozione della massima sanzione disciplinare adottata
dalla società datrice, è stata diretta ad evitare irregolarità nella
predisposizione del bilancio, nonché ad evitare a se stessa
l’esposizione a qualche forma di corresponsabilità.
Il lavoratore aveva convenuto in giudizio la società alle dipendenze
della quale aveva prestato servizio in qualità di dirigente
amministrativa, chiedendo l’accertamento della illegittimità del
licenziamento irrogatole e la condanna della società datrice di lavoro
al risarcimento dei danni.
Il giudice di primo grado osservava che il comportamento tenuto dalla
dirigente (consistito nel non voler effettuare o consentire di
effettuare rettifiche ai dati contabili imposte dalla società tramite
il suo consulente e l’amministratore destinata ad essere inseriti nel
bilancio) non era risultato improntato a mancata collaborazione, ma era
stato diretto ad evitare irregolarità nella predisposizione del
bilancio della società (irregolarità confermate dalla consulenza
d’ufficio): non era, dunque, ravvisabile un comportamento tale da
giustificare il venir meno il vincolo fiduciario che connota il rapporto
di lavoro del dirigente, vincolo in virtù del quale - a giudizio del
tribunale - il datore di lavoro non può pretendere che il secondo sia
disposto ad assumere qualsiasi iniziativa nell’interesse della società,
anche quando il comportamento preteso sia ritenuto, fondatamente, tale
da agevolare il compimento di atti illeciti o di irregolarità sotto il
profilo fiscale. Esclusa la sussistenza di una giusta causa, il
Tribunale riteneva ingiustificato il licenziamento impugnato: le fondate
perplessità manifestate dal dirigente in ordine alle variazioni
contabili concernenti la predisposizione del bilancio erano ben
conosciute dalla società datrice di lavoro nel momento in cui fu
irrogato il licenziamento, sicché - a giudizio del Tribunale -
l’iniziativa assunta dalla società convenuta si poneva in contrasto
con il principio di buona fede, essendo basata su comportamenti
certamente ammessi dalla dirigente, ma motivati da specifiche ragioni,
risultate non pretestuose.
Non veniva però accolta in tale sede la richiesta di risarcimento del
danno morale, non essendo emersi concreti elementi di prova per ritenere
che le richieste di chiarimenti e dati contabili fossero state poste in
essere mediante condotte tali da integrare reati di violenza privata o
minaccia.
Nel ricorso prodotto alla Corte anche per altre motivazioni di carattere
economico, il ricorrente ha lamentato che costituisce illecito
risarcibile la disposizione gerarchica data al lavoratore di commettere
atti contrari alla legge, poiché ciò costituisce oggettiva ingiustizia
e pone il lavoratore nell’alternativa tra violare la legge o esporsi
alle conseguenze. Un tale comportamento del datore può compromettere la
integrità morale del lavoratore, non meno della sua integrità fisica o
del suo profilo professionale.
Su tale aspetto la Corte ha sostenuto che, non può certo escludersi che
sia configurabile alla stregua di illecito risarcibile il comportamento
del datore di lavoro che si traduca in disposizioni gerarchiche - come
tali dotate di indubbia forza vincolante - rivolte al dipendente al fine
di indurlo ad atti contrari alla legge, ovvero incompatibili con il
senso etico comune. In questi termini, del tutto generali, può
convenirsi che un comportamento del genere potrebbe integrare una
violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore
di lavoro, imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., sempreché
sia provata la situazione di effettiva sudditanza psicologica in cui il
dipendente si sia trovato, anche in relazione alla sua posizione di
lavoro e alle sue capacità di resistenza. Si tratta quindi di un
profilo - per molti versi riconducibile al tema di viva attualità, come
il "mobbing" - che
non può essere confuso con il diverso profilo della risarcibilità del
danno morale ai sensi del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185
c.p., essendo assolutamente distinti i rispettivi presupposti e la
natura dei rispettivi titoli di responsabilità: contrattuale, quella
derivante dalla violazione dell’art. 2087 c.c., extracontrattuale,
invece, quella nascente dall’art. 2059 c.c., il quale a sua volta
presuppone, in particolare, l’esistenza di un fatto reato. Precisava
già la prima sentenza, infatti, che, in ordine alle ipotesi di violenza
o minacce dedotte dalla lavoratrice, non erano emersi concreti elementi
di prova per potere ritenere che le richieste di chiarimenti e dati
contabili ad essa dirette siano state poste in essere mediante condotte
tali da integrare quelle fattispecie di reato:
"non risulta, infatti, tra l’altro, che sia stata prospettata
l’eventualità di perdere il posto in caso di mancato accoglimento
delle richieste suddette, laddove l’illegittimo licenziamento, poi
intimato per i motivi sopra esaminati, se da un lato giustifica le
richieste economiche del prestatore di lavoro … dall’altro non
rappresenta un reato e, quindi, non è idoneo in sé a costituire fonte
di risarcimento del danno morale".
Ha altresì osservato la Corte che i precedenti gradi di giudizio hanno
accuratamente ripercorso tutte le vicende che hanno condotto al
licenziamento della dirigente, pervenendo alla conclusione che il
comportamento di quest’ultima, lungi dall’essere improntato alla
mancata collaborazione, oggetto della contestazione disciplinare
precedente l’adozione della massima sanzione disciplinare adottata
dalla società resistente, è stato piuttosto diretto ad evitare
irregolarità nella predisposizione del bilancio, nonché ad evitare a
se stessa l’esposizione a qualche forma di corresponsabilità. In
particolare, è stato che proprio le modifiche apportate nel bilancio, e
non condivise dal lavoratore, presentavano una serie di irregolarità
dal punto di vista contabile e fiscale: tali irregolarità - emerse
dall’esame del bilancio, poi approvato dalla società con
l’inserimento, effettuato tramite altro dipendente, di quelle voci
contabili espressamente contestate per iscritto dal lavoratore -
evidenziavano la fondatezza del timore di quest’ultimo, in relazione
alle sue specifiche responsabilità all’interno dell’impresa, di
rendersi complice di una attività illecita e di incorrere in eventuali
responsabilità anche a titolo di concorso o quanto meno di agevolazione
colposa.
Sulla base di queste circostanze già il tribunale aveva escluso la
configurabilità di una giusta causa del licenziamento, non potendosi
ravvisare nella fattispecie il venir meno del vincolo fiduciario tra le
parti del rapporto di lavoro.
Va richiamata peraltro la consolidata giurisprudenza della stessa
Corte, secondo cui, dato il particolare modo di atteggiarsi del rapporto
di lavoro del dirigente, la nozione di giustificatezza - nettamente
distinta da quella di giustificato motivo - si traduce essenzialmente in
quella di assenza di arbitrarietà, o, nella ragionevolezza del
provvedimento datoriale, il quale, pur restando nell’ambito generale
di una recedibilità ad nutum, viene tuttavia, per espressa previsione della disciplina
collettiva, assoggettato ai limiti generali che presiedono alla
esecuzione dei contratti, in termini di buona fede e correttezza (art.
1375 c.c.), nonché ai generali divieti di discriminazione e
dell’abuso del diritto. Nell’ipotesi in esame, correttamente il
tribunale aveva ritenuto che i motivi addotti dal datore di lavoro non
erano idonei a giustificare il recesso adottato come provvedimento
disciplinare: la condotta del lavoratore, lungi dal qualificarsi come
inadempimento dei propri obblighi lavorativi nei confronti della società,
appariva del tutto giustificata dai dubbi relativi alle variazioni
contabili concernenti la predisposizione del bilancio, manifestati
esplicitamente dalla medesima dipendente all’amministratrice della
società con un’apposita lettera inviata circa un mese prima del
licenziamento. Di qui la coerente conclusione dei giudici di merito che
il provvedimento adottato dalla società si pone in contrasto con il
principio di buona fede, essendo basato su comportamenti ammessi dal
dirigente ma motivati da specifiche ragioni risultate non pretestuose.
Sulla base di quanto precede, il ricorso proposto dalla società datrice
è stato respinto.
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